“Non so fare qualcosa, sono disabile in questo” > Dire ad esempio “io non so stirare, quindi sono disabile in quello” o “io non so cantare, quindi sono meno abile” perpetua una concezione di **disabilità come “non abilità” e “mancanza”**. > Concedere con benevolenza che “siamo tutti disabili in qualcosa” rivela il fatto che la disabilità è accettabile per le persone non disabili solo se queste ci si possono “ritrovare”. E l’unico modo in cui possono ritrovarcisi è mettere comunque sempre al centro la loro esperienza. [^1] > «siamo tutte un po’ disabili» è una tipica frase che riassume quest’idea, una posizione che rafforza l’empatia ma rischia di invisibilizzare l’oppressione specifica subita dalle persone con disabilità. È stata infatti evidenziata, in senso opposto, l’importanza di mantenere chiara la distinzione tra persone disabili e non. Anzitutto, questo serve a non invisibilizzare il fatto che le prime sono soggette a una pesante oppressione sistemica, a differenza delle seconde: il livello di discriminazione subito da chi ha la sindrome di Down o la Sla non è comparabile con quello subito da chi porta gli occhiali. […] È una posizione simile a quella di chi ritiene importante non fare finta che una persona nera non viva, proprio perché nera, una condizione specifica: possiamo anche dire che tanto «siamo tutte uguali», ma il fatto di essere nera ha avuto un impatto sulla sua storia, su come è cresciuta, su come viene percepita e interagisce; invisibilizzare tutto questo significherebbe cancellare una parte della sua identità. [^2] [^1]: Mezze persone, Elena e Mariachiara Paolini, 2022 [^2]: Lo spazio non è neutro, Ilaria Crippi, 2024