> Un raccolta dati nasce da una decisione ben precisa, situata in un contesto, e da una presa di posizione di una persona con una visuale non oggettiva, ma anzi immersa completamente nel processo di produzione del fenomeno osservato. ([[Quando i dati discriminano]], Donata Columbro, 2024) Quando Jessica Heidt, segretaria di edizione di Disney Pixar, ha dato ascolto alla sua percezione rispetto alla disparità della presenza femminile nei film della casa cinematografica statunitense, ha iniziato a contare. «Io vedevo il problema da una prospettiva che gli altri non potevano avere, il mio punto di vista è diverso, io seguo le battute. Vedo le parole, e le conto» (Inside Pixar, 2020). Heidt è «script supervisor», cioè supervisiona le sceneggiature di ogni film in uscita della casa cinematografica statunitense, e dalla sua posizione privilegiata nota una disuguaglianza: … scopre che il 75% dei film Pixar ha una forte disparità di genere per quanto riguarda la rappresentazione femminile. > Può partire da un’intuizione, da una richiesta dall’alto, da una consuetudine o da un bisogno, ma il processo della [[datificazione]] è sempre intenzionale, non naturale. > «i dati dovrebbero chiamarsi sublata o “achievements”», «ottenimenti», per rendere ancora meglio l’idea di «processo». (Bruno Latour, Pandora’s hope, 1999, p. 59) In Laboratory life: The construction of scientific facts, scritto vent’anni prima insieme al sociologo britannico Steve Woolgar, Latour compie un vero e proprio lavoro antropologico per esplorare il modo in cui i fatti scientifici vengono costruiti all’interno del laboratorio. I due autori si immergono nella vita quotidiana di un laboratorio di biologia, osservando le pratiche e le interazioni tra gli scienziati, così come il ruolo delle apparecchiature e degli strumenti utilizzati. Latour e Woolgar sostengono che i fatti scientifici non sono semplicemente «scoperti», ma sono piuttosto il risultato di una serie di negoziazioni sociali, decisioni e pratiche che avvengono all’interno della comunità scientifica, evidenziando il ruolo delle tecnologie di laboratorio — a loro volta il prodotto di una costruzione sociale — nel plasmare i risultati della ricerca (Latour e Woolgar, 1979). Beaulieu e Leonelli parlano invece di «**viaggio dei dati**» come metafora, perché, esattamente come un viaggio che possiamo intraprendere quando andiamo in vacanza, «anche i viaggi dei dati sono resi possibili da infrastrutture e azioni umane, in vario grado, e non sono sempre senza ostacoli. Ci possono essere ostacoli, interruzioni inaspettate, l’interesse nei confronti di quei dati (quindi le risorse economiche per mantenerli in vita) può mutare. Tenere traccia del viaggio compiuto evita di perdere la memoria delle modifiche apportate, di ciò che è stato scartato nella fase di raccolta o aggiunto in seguito, ma anche del modo in cui sono stati aggregati e delle eventuali perdite subite. Prendendo in considerazione tutto questo, «non è realistico affermare che i dati, sostengono le ricercatrici, parlino da soli».